La banalità del male
- erikacei
- 7 ago 2024
- Tempo di lettura: 3 min
Per riprendere il tema del post precedente (mettersi nei panni degli altri) una delle foto presenti in “In viaggio con Frida” si intitola “La banalità del male” ed è chiaramente ispirata al titolo dell’omonimo libro della filosofa tedesca Hannah Arendt.
Per chi non lo avesse letto, il libro è un reportage fatto dalla stessa Arendt nel corso del processo ad Adolf Eichmann, che si tenne a Gerusalemme nel 1961, cui la studiosa assistette come corrispondente del New Yorker.
Lessi questo libro, per la prima volta, nel 2001 lo e ritengo tuttora uno dei libri più importanti sul nazismo.
Di fatto la Arendt, con la sua invidiabile lucidità, scevra da pregiudizi, è riuscita a comprendere pienamente cosa si cela dietro l’orrore dell’Olocausto e che la nostra mente logico-razionale fatica a capire.
Nel libro vengono descritti molto bene sia il modo in cui si svolse il processo, sia le diverse fasi della “soluzione finale”, sia la figura di Eichmann, che organizzò il trasporto degli ebrei nei campi di sterminio.
Eichmann non aveva turbe psichiche, non era un fanatico antisemita, non nutriva odio per gli ebrei, secondo la Arendt. Era invece una persona normale, nel senso che “non era un’eccezione nella Germania nazista” e, in quanto tale, era un cittadino ligio alla legge e, quindi, agli ordini di Hitler.
Per niente brillante negli studi, aveva un’evidente mentalità da gregario, era ambizioso, era convinto - come altri - di partecipare a qualcosa di grandioso, il Terzo Reich, ammirava Hitler e si distingueva per i suoi tratti istrionici e per la sua millanteria.
“ Ma la millanteria è un vizio comune, mentre un tratto più personale, nonché più importante, del carattere di Eichmann era la sua quasi totale incapacità di vedere le cose dal punto di vista degli altri.”
A tutti, inutile negarlo, capita a volte di mettere l’empatia in cantina, soprattutto quando si prova paura, quella forza così potente da oscurare la nostra capacità di pensiero e, quindi, di metterci nei panni degli altri e di vedere le cose dal loro punto di vista.
Ora, nella Germania nazista, la paura (forse sarebbe meglio dire il terrore) regnava sovrana. Va da sé, quindi, che il livello di empatia era in generale molto basso e che salvare la propria pelle veniva prima di ogni altra cosa. Questo fattore, oltre alla naturale propensione dell’essere umano a obbedire al capo (riscontrata da Stanley Milgram attraverso i suoi esperimenti di psicologia sociale, negli anni ‘60) ci permettono di comprendere le ragioni dell’atteggiamento assunto dalla maggioranza della popolazione tedesca (o alleata dei tedeschi) nei confronti delle decisioni criminali adottate dai propri governanti.
Ma si può dire lo stesso di chi, come Eichmann, prendeva le decisioni? Si può dire cioè che fosse terrorizzato a tal punto da non capire più la differenza tra bene e male, da non capire cosa stava facendo? Non lo sappiamo per certo, ma possiamo supporre, dal comportamento assunto dai gerarchi nazista (incluso Eichmann) al termine della guerra, che sapevano esattamente cosa stavano facendo e che, pur consapevoli di questo, continuarono a farlo finché ebbero la certezza di restare impuniti.
Nemmeno a posteriori - e la Arendt lo dimostra chiaramente - ebbero dei ripensamenti ed è questa, forse, più che non l’assenza di empatia di per sè, la differenza principale tra Eichmann e la maggior parte di noi: la pressoché totale incapacità di fare i conti con la propria coscienza. Del resto, se avesse fatto i conti con la propria coscienza, forse Eichmann sarebbe finito in un ospedale psichiatrico, invece che a Gerusalemme, ammesso e non concesso che una coscienza ce l'avesse.

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